Frettolosamente liquidato da alcuni a Locarno come "americaneggiante" (come se il Giappone non fosse notoriamente più americanizzato del Texas; o come se sugli schermi del Sol levante gli spettatori reclamassero a vita film sui samurai...) questa storia di suicidio collettivo girata da un 33enne dimostra appieno l'appartenenza ad una sorgente d'ispirazione vitalissima come quella che fa capo al suo produttore Kitano.Il film non si limita infatti a creare un (americanissimo...) suspense sul "precipiterà o meno dalla scogliera il bus non i nostri tragici eroi", ma diventa una ben più preziosa e poetica meditazione sulla lotta fra la vita e la morte. Non soltanto, infatti, per drammatizzare ulteriormente la vicenda viene introdotta nella storia il personaggio della ragazzina ignara, condannata innocentemente a seguire il convoglio funesto. Ma perché la ragazzina riporta alla vita i suicidi, riafferma la prevalenza eterna della vita, quella della tenerezza e della poesia con i suoi giochi, i suoi canti, il suo pragmatismo vitale. Fino allo splendido sberleffo finale, degno del grande Kitano: dove il destino, per quanto strumentalizzato dagli uomini si riappropria - ineluttabilmente, ma pure paradossalmente come in ogni opera d'arte autentica - il proprio ruolo eterno.
Giudiziosamente neutro nella sua accentuazione filmica (quindi mai pietistico, nemmeno melodrammatico, addirittura umoristico) il film s'impone per la maturità e l'equilibrio del proprio tono e discorso.